Ecco i personaggi principali dell'Inferno, prima cantica della Divina Commedia: chi ha incontrato Dante Alighieri durante la sua discesa agli inferi?
Passiamo in rassegna alcuni dei personaggi e delle figure più rilevanti all’interno dell’Inferno, la prima cantica della Divina Commedia, soffermandoci sull’aspetto critico e dell’interpretazione: chi ha incontrato Dante Alighieri durante la sua discesa agli inferi e cos'hanno rappresentato questi incontri?
Questa breve guida vi servirà a comprendere il peso di ciascun protagonista all'interno dei primi trentaquattro canti del poema.
Questa breve guida vi servirà a comprendere il peso di ciascun protagonista all'interno dei primi trentaquattro canti del poema.
L'incontro con Francesca da Rimini (canto V, 73-142)
Per inquadrare criticamente uno degli episodi più famosi della Commedia è importante togliersi di dosso una certa impostazione romantica, e ricordare preliminarmente che Francesca da Rimini è una dannata che racconta la sua vicenda terrena. L’essere ancora unita a Paolo (“quei due che ‘nsieme vanno”) non è una celebrazione dell’amore, ma una condanna divina per chi ha infranto il vincolo del matrimonio per dedicarsi a una passione peccaminosa; così pure non si deve ritenere Francesca superiore a Paolo, perché ella si occupa di metà dell’episodio (il “dire”) mentre Paolo piange, a sottolineare la corretta chiave di interpretazione dell’episodio.
La vicenda di Paolo e Francesca era tanto famosa all’epoca di Dante che la donna non ha neppure bisogno di presentarsi (è Dante a svelarci, chiamandola, che si tratta di Francesca) e si può, per cos’ dire, abbandonare alle terzine sull’Amore, tendendo così ad attenuare la propria responsabilità individuale per inquadrarla in una più generale accusa di un sentimento non controllabile che richiama i dettami del De Amore di Andrea Cappellano, un trattato famosissimo nel Medioevo. Ciò che probabilmente davvero colpisce dell’episodio è che si tratta della prima esperienza non allegorica del viaggio; per la prima volta dobbiamo affrontare l’emozione di una vicenda reale, storica, che ci costringe a mettere in gioco anche il nostro vissuto e le nostre opinioni.
Dante stesso non si capacita di come un sentimento così nobile sia potuto diventare peccato, ma non può fare altro che prenderne atto. Il suo svenimento alla fine del racconto non è da intendersi come vicinanza emotiva a quanto ha appena udito, ma come consapevolezza di un errore grave che egli ha commesso: Dante ha infatti confuso, in gioventù, il senso della letteratura, ritenendo che la lode della donna fosse sufficiente alla poesia, mentre ha poi compreso che essa va inquadrata all’interno della lode di Dio. La frase di Francesca “Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse” suona quindi, per lui, quasi come una condanna della letteratura d’amore e quindi anche del suo operato.
La vicenda di Paolo e Francesca era tanto famosa all’epoca di Dante che la donna non ha neppure bisogno di presentarsi (è Dante a svelarci, chiamandola, che si tratta di Francesca) e si può, per cos’ dire, abbandonare alle terzine sull’Amore, tendendo così ad attenuare la propria responsabilità individuale per inquadrarla in una più generale accusa di un sentimento non controllabile che richiama i dettami del De Amore di Andrea Cappellano, un trattato famosissimo nel Medioevo. Ciò che probabilmente davvero colpisce dell’episodio è che si tratta della prima esperienza non allegorica del viaggio; per la prima volta dobbiamo affrontare l’emozione di una vicenda reale, storica, che ci costringe a mettere in gioco anche il nostro vissuto e le nostre opinioni.
Dante stesso non si capacita di come un sentimento così nobile sia potuto diventare peccato, ma non può fare altro che prenderne atto. Il suo svenimento alla fine del racconto non è da intendersi come vicinanza emotiva a quanto ha appena udito, ma come consapevolezza di un errore grave che egli ha commesso: Dante ha infatti confuso, in gioventù, il senso della letteratura, ritenendo che la lode della donna fosse sufficiente alla poesia, mentre ha poi compreso che essa va inquadrata all’interno della lode di Dio. La frase di Francesca “Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse” suona quindi, per lui, quasi come una condanna della letteratura d’amore e quindi anche del suo operato.
Chi è Ciacco nella Divina Commedia? (canto VI, 34-93)
L’incontro con Ciacco, di cui null’altro sappiamo se non quanto è detto nel sesto canto, è tutto sommato abbastanza breve, collocato com’è in uno dei due canti più brevi della Commedia. Dante non si sentiva particolarmente coinvolto nel peccato della gola, quindi dedica un’attenzione e un’umanità piuttosto scarsa a questi peccatori. Il primo dato di interesse è di natura linguistica: Ciacco riconosce la provenienza geografia di Dante sentendolo parlare, segno quindi di una chiara percezione delle inflessioni dialettali all’epoca della stesura del poema.
Il breve colloquio si struttura su tre domande e risposte. Dante chiede qual è il futuro di Firenze e Ciacco risponde che “verranno al sangue”, oltre a predire le vicende successive. Chiede poi “s’alcun v’è giusto”, e la risposta sibillina è che “giusti son due, e non vi sono intesi”: quasi impossibile l’identificazione delle due figure, ma è decisamente probabile che Dante pensasse a se stesso. La terza domanda riguarda il motivo di tante discordie e Ciacco risponde che sono la superbia, l’invidia e l’avarizia (tre peccati forse allusivi delle tre fiere del canto I). Dante chiede poi dove sono alcuni fiorentini illustri; essi sono tutti nel basso Inferno (Farinata nel canto X, Tegghiaio e Iacopo Rusticucci nel XVI, Mosca nel XXVIII, mentre dubbia è l’identità di Arrigo).
Il breve colloquio si struttura su tre domande e risposte. Dante chiede qual è il futuro di Firenze e Ciacco risponde che “verranno al sangue”, oltre a predire le vicende successive. Chiede poi “s’alcun v’è giusto”, e la risposta sibillina è che “giusti son due, e non vi sono intesi”: quasi impossibile l’identificazione delle due figure, ma è decisamente probabile che Dante pensasse a se stesso. La terza domanda riguarda il motivo di tante discordie e Ciacco risponde che sono la superbia, l’invidia e l’avarizia (tre peccati forse allusivi delle tre fiere del canto I). Dante chiede poi dove sono alcuni fiorentini illustri; essi sono tutti nel basso Inferno (Farinata nel canto X, Tegghiaio e Iacopo Rusticucci nel XVI, Mosca nel XXVIII, mentre dubbia è l’identità di Arrigo).
L'incontro fra Dante e Farinata degli Uberti (canto X, 22-120)
L’incontro con Farinata assume toni caratteristici; si tratta infatti di un nemico politico di Dante che gli era ideologicamente avverso, ma di cui il poeta riconosce la grandezza, tanto da chiamarlo “magnanimo”, da dir di lui che stava “com’avesse l’inferno a gran dispetto” e da rappresentarlo con le fattezze e la gravità di una statua, che non si muove di fronte alla patetica scena che interrompe il colloquio tra i due e che vede invece come protagonista Cavalcante de’ Cavalcanti (padre di Guido).
Lo scambio/scontro si muove innanzitutto su un terreno politico, poiché Farinata si riconosce nella fazione che “per due fiate” disperse i guelfi nelle vittorie ghibelline del 1248 e del 1260; Dante però gli rinfaccia che i Guelfi riuscirono sempre a ritornare in città , a differenza dei Ghibellini. Dopo la già citata interruzione di Cavalcante, che porta in scena il mondo degli affetti privati, costringe Dante a ribadire il suo ruolo di scriba dei e la missione salvifica del suo viaggio e offre lo spunto narrativo per la questione che sarà risolta più tardi, Farinata profetizza l’esilio di Dante, che va dunque inserito in questo caso all’interno non tanto della vicenda privata, ma di quella pubblica e appunto politica. Dante approfitta poi per farsi dare dal dannato una spiegazione sulla visione delle anime, che sembrano conoscere il futuro ma non il presente. Farinata spiega che i dannati vedono solo il futuro, e che dopo il giudizio universale non sapranno più nulla, anche se non è chiaro se tale condizione sia propria solo degli epicurei o di tutti i dannati.
Lo scambio/scontro si muove innanzitutto su un terreno politico, poiché Farinata si riconosce nella fazione che “per due fiate” disperse i guelfi nelle vittorie ghibelline del 1248 e del 1260; Dante però gli rinfaccia che i Guelfi riuscirono sempre a ritornare in città , a differenza dei Ghibellini. Dopo la già citata interruzione di Cavalcante, che porta in scena il mondo degli affetti privati, costringe Dante a ribadire il suo ruolo di scriba dei e la missione salvifica del suo viaggio e offre lo spunto narrativo per la questione che sarà risolta più tardi, Farinata profetizza l’esilio di Dante, che va dunque inserito in questo caso all’interno non tanto della vicenda privata, ma di quella pubblica e appunto politica. Dante approfitta poi per farsi dare dal dannato una spiegazione sulla visione delle anime, che sembrano conoscere il futuro ma non il presente. Farinata spiega che i dannati vedono solo il futuro, e che dopo il giudizio universale non sapranno più nulla, anche se non è chiaro se tale condizione sia propria solo degli epicurei o di tutti i dannati.
Pier delle Vigne nell'Inferno di Dante (canto XIII, 22-108)
Pier della Vigna (o Pier delle Vigne) è il personaggio protagonista all’interno della selva dei suicidi, un mondo alla rovescia in cui Dante inizialmente non riesce a capire cosa succede, finché, su invito di Virgilio, spezza un ramo di uno degli alberi presenti, il quale inizia a parlare e a stillare sangue.
L’episodio rimanda, in letteratura, a quello di Polidoro in Aen, III, e verrà poi ripreso da Ludovico Ariosto nell’Orlando Furioso. Tutto il racconto di Pier della Vigna è innestato su un rapporto squilibrato tra realtà e apparenza, in cui il suo buon operato, per invidia, viene valutato negativamente dell’amato imperato Federico II, tanto da indurlo a farlo ingiusto “contro me giusto”, espressione che ben traduce il fatto che il suicidio è di per sé contraddittorio per un cristiano, strano appunto come l’ambiente in cui le anime stanno.
Nell’invidia della corte imperiale Dante rivive l’invidia che domina la città di Firenze e vede meglio i limiti della sua città . L’incontro si chiude con alcune richieste di chiarimento sulla modalità della pena dei suicidi, gli unici che non si riuniranno al loro corpo dopo il giudizio universale perché lo hanno rifiutato in vita.
L’episodio rimanda, in letteratura, a quello di Polidoro in Aen, III, e verrà poi ripreso da Ludovico Ariosto nell’Orlando Furioso. Tutto il racconto di Pier della Vigna è innestato su un rapporto squilibrato tra realtà e apparenza, in cui il suo buon operato, per invidia, viene valutato negativamente dell’amato imperato Federico II, tanto da indurlo a farlo ingiusto “contro me giusto”, espressione che ben traduce il fatto che il suicidio è di per sé contraddittorio per un cristiano, strano appunto come l’ambiente in cui le anime stanno.
Nell’invidia della corte imperiale Dante rivive l’invidia che domina la città di Firenze e vede meglio i limiti della sua città . L’incontro si chiude con alcune richieste di chiarimento sulla modalità della pena dei suicidi, gli unici che non si riuniranno al loro corpo dopo il giudizio universale perché lo hanno rifiutato in vita.
Brunetto Latini nell'Inferno di Dante (canto XV, 22-124)
Molto discussa è la scena dell’incontro di Dante con il suo maestro, Brunetto Latini. È forse anzitutto utile precisare che Brunetto fu un maestro politico per Dante, non tanto un insegnante come noi intendiamo oggi il termine. Brunetto esce dalla schiera dei sodomiti con “lo cotto aspetto”, e Dante s’abbassa e lo riconosce. Non sembra un avvio molto gratificante, né rispettoso; eppure pian piano, con il progredire dell’episodio, la figura si riscatta, senza diventare certo un beato, ma almeno sembrando sulla chiusa “quelli che vince, non colui che perde”.
Il maestro è molto preoccupato della sua piccola fama letteraria (“Sieti raccomandato il mio Tesoro / nel qual io vivo ancora, e più non scheggio”) e parla talvolta per proverbi e frasi fatte, a testimonianza di un certo limite del suo modo di intendere la conoscenza; Dante forse ironizza quando rievoca “la cara e buona immagine paterna” che gli ha insegnato “come l’uom si etterna” ma che, a quanto pare, non è stato in grado di applicare la sua stessa lezione!. In questa cornice rientrano contenuti seri della conversazione; Brunetto profetizza in termini chiari le sventure di Dante e si scaglia contro la loro città , Firenze, ribadendo che le colpe più gravi sono da ritrovarsi nella gente “avara, invidiosa superba”.
Il maestro è molto preoccupato della sua piccola fama letteraria (“Sieti raccomandato il mio Tesoro / nel qual io vivo ancora, e più non scheggio”) e parla talvolta per proverbi e frasi fatte, a testimonianza di un certo limite del suo modo di intendere la conoscenza; Dante forse ironizza quando rievoca “la cara e buona immagine paterna” che gli ha insegnato “come l’uom si etterna” ma che, a quanto pare, non è stato in grado di applicare la sua stessa lezione!. In questa cornice rientrano contenuti seri della conversazione; Brunetto profetizza in termini chiari le sventure di Dante e si scaglia contro la loro città , Firenze, ribadendo che le colpe più gravi sono da ritrovarsi nella gente “avara, invidiosa superba”.
L'incontro con papa Niccolò III (canto XIX, 31-133)
Dell’episodio non è interessante tanto l’incontro o la figura di questo papa, ma la tematica trattata. Dante è stupito nel vedere la valle in cui si trova illuminata da fiamme che bruciano sopra a dei piedi conficcati nel terreno. Si avvicina a un dannato e chiede spiegazioni; si tratta di papa Niccolò III, che lo crede papa Bonifacio VIII e profetizza anche la morte di papa Clemente V.
Questo stratagemma letterario concede a Dante di condannare l’odiato papa all’Inferno, benché non ancora morto al tempo immaginario del viaggio. Alle parole del pontefice segue un’invettiva di Dante contro la degenerazione e la corruzione della Chiesa, in particolare all’interno del peccato di simonia. La Chiesa, nella sua riflessione, era nata pura, ma è stata corrotta dal comportamento sbagliato del papa.
Dante chiude criticando la donazione di Costantino, che a al suo tempo si riteneva ancora autentica e la cui in autenticità venne poi dimostrata da Lorenzo Valla in età umanistica.
Questo stratagemma letterario concede a Dante di condannare l’odiato papa all’Inferno, benché non ancora morto al tempo immaginario del viaggio. Alle parole del pontefice segue un’invettiva di Dante contro la degenerazione e la corruzione della Chiesa, in particolare all’interno del peccato di simonia. La Chiesa, nella sua riflessione, era nata pura, ma è stata corrotta dal comportamento sbagliato del papa.
Dante chiude criticando la donazione di Costantino, che a al suo tempo si riteneva ancora autentica e la cui in autenticità venne poi dimostrata da Lorenzo Valla in età umanistica.
L'incontro con Ulisse (canto XXVI, 49-142)
Ulisse è forse il personaggio più affascinante della storia della letteratura, e infatti anche Dante lo rende protagonista di un canto; ma al di là della vicenda, è più interessante comprendere che Ulisse diventa il simbolo della follia, ossia dell’incapacità umana di rimanere dentro i limiti segnati da Dio.
Si tratta di una paura che Dante stesso cerca di esorcizzare, chiedendo più volte a Virgilio se egli sia degno di tale viaggio (si veda in particolare If, II). La magnanimità , dunque, caratteristica specifica dei grandi umani, non è solo data dall’ingegno, ma anche dalla virtù; l’ingegno deve essere controllato affinché non esca dal tracciato in cui è autorizzato da Dio a indagare (anche questo tema sarà ripreso, si veda Pd, XI).
L’incontro è introdotto in modo quasi solenne da uno scambio tra Dante e Virgilio, che preferisce chiamare Ulisse in prima persona, “ch’ei sarebbero schivi, / perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto”. Ulisse, quasi in un’unica emissione di fiato, racconta la storia del suo viaggio, l’inganno supremo ai danni dei suoi compagni, che convinse a riprendere il mare. Nella famigerata “orazion picciola” Ulisse celebra il valore dei classici (“Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza”), ma al contempo mostra la sua condanna: essi sono insufficienti da soli, perché non sono illuminati dalla grazia di Dio. Per questo, a livello interpretativo, è scorretto pensare che con questa terzina inizi l’Umanesimo; anzi, Dante dimostra di essere ancora profondamente legato al suo tempo e alla sua mentalità .
Il “folle volo” di Ulisse si conclude con la visione, seppure indistinta, della montagna del Purgatorio, cioè allegoricamente alla visione della salvezza divina; ma l’uomo da solo non può salvarsi, ed è destinato al fallimento, che nell’episodio è drammaticamente simboleggiato dal naufragio dell’ultimo verso del canto.
Si tratta di una paura che Dante stesso cerca di esorcizzare, chiedendo più volte a Virgilio se egli sia degno di tale viaggio (si veda in particolare If, II). La magnanimità , dunque, caratteristica specifica dei grandi umani, non è solo data dall’ingegno, ma anche dalla virtù; l’ingegno deve essere controllato affinché non esca dal tracciato in cui è autorizzato da Dio a indagare (anche questo tema sarà ripreso, si veda Pd, XI).
L’incontro è introdotto in modo quasi solenne da uno scambio tra Dante e Virgilio, che preferisce chiamare Ulisse in prima persona, “ch’ei sarebbero schivi, / perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto”. Ulisse, quasi in un’unica emissione di fiato, racconta la storia del suo viaggio, l’inganno supremo ai danni dei suoi compagni, che convinse a riprendere il mare. Nella famigerata “orazion picciola” Ulisse celebra il valore dei classici (“Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza”), ma al contempo mostra la sua condanna: essi sono insufficienti da soli, perché non sono illuminati dalla grazia di Dio. Per questo, a livello interpretativo, è scorretto pensare che con questa terzina inizi l’Umanesimo; anzi, Dante dimostra di essere ancora profondamente legato al suo tempo e alla sua mentalità .
Il “folle volo” di Ulisse si conclude con la visione, seppure indistinta, della montagna del Purgatorio, cioè allegoricamente alla visione della salvezza divina; ma l’uomo da solo non può salvarsi, ed è destinato al fallimento, che nell’episodio è drammaticamente simboleggiato dal naufragio dell’ultimo verso del canto.
Conte Ugolino della Gherardesca (canti XXXII, 124-139 e XXXIII, 1-78)
L’incontro con Ugolino è drammaticamente spezzato tra la fine del canto XXXII, in cui dopo aver visto la terribile visione di un’anima che rode il capo dell’altra Dante chiede ragione di tale comportamento, e il famoso incipit del canto XXXIII (“La bocca sollevò dal fiero pasto / quel traditor, forbendola a’ capelli / del capo ch’elli avea di retro guasto”).
La risposta di Ugolino si concentra in un tragico soliloquio; Dante non dimentica la sua natura di peccatore del più basso Inferno, ma il punto focale del discorso è il suo dolore e l’introspezione che ne deriva. Nel raccontare la vicenda Ugolino allude agli aspetti più raccapriccianti, senza mai esplicitare il nodo del cannibalismo cui deve la sua terribile fama e lasciando sotteso il tema politico, anche legato alla sua colpa, che poi verrà tracciato da Dante nei versi successivi con l’invettiva a Pisa.
La risposta di Ugolino si concentra in un tragico soliloquio; Dante non dimentica la sua natura di peccatore del più basso Inferno, ma il punto focale del discorso è il suo dolore e l’introspezione che ne deriva. Nel raccontare la vicenda Ugolino allude agli aspetti più raccapriccianti, senza mai esplicitare il nodo del cannibalismo cui deve la sua terribile fama e lasciando sotteso il tema politico, anche legato alla sua colpa, che poi verrà tracciato da Dante nei versi successivi con l’invettiva a Pisa.