Commento e analisi di Pianto Antico, la poesia più famosa di Giosue Carducci
Partiamo da una considerazione prima del commento a Pianto antico di Giosue Carducci: forse siamo dinanzi al testo più famoso del poeta; tale fama è determinata non tanto dalle particolari caratteristiche formali della poesia o dal contenuto innovativo, ma dalla tradizione scolastica, che spesso fa imparare a memoria i versi fin dalla scuola primaria. L’occasione del testo, però, non è felice: Carducci aveva perso il figlio Dante all’età di tre anni nel 1870.
Innanzitutto, il titolo: il termine “pianto” rimanda, com’è ovvio, a qualcosa di triste e lacrimevole e, contemporaneamente, fa riferimento a un preciso genere poetico, il planctus, che esprimeva dolore o angoscia attraverso una lamentazione. Così pure, il termine “antico” può alludere sia alla precisa natura della poesia, che si nutre dei riferimenti della tradizione (tanto cara a Carducci), sia al fatto che il pianto di una padre per un figlio morto è qualcosa di universale e appunto antico, poiché rimane invariato, nella sua tragicità, nel corso della storia.
L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fiori
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l'inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol piú ti rallegra
né ti risveglia amor.
A una prima lettura, il ritmo contrasta notevolmente con il contenuto; si tratta infatti di una canzonetta (o odicina) anacreontica, ossia di un metro formato da quartine di settenari con schema abbx, in cui l’ultimo verso (x) rima con tutti gli altri e ricorda Il Risorgimento di Giacomo Leopardi. Il contrasto però viene attenuato se si pensa che questa poesia è dedicata a un bambino, e quindi anche il metro è un estremo omaggio alla sua infanzia.
La poesia sembra divisa in due parti. Nelle prime due quartine emergono immagini positive radunate attorno a un’immagine dominante, l’albero: sono presenti i colori (verde, vermigli, rinverdì) oltre che sensazioni di luce e calore. L’albero continua la sua vita e, appunto, rinverdisce, rispondendo al ciclo della vita. Non così “tu”, cioè il figlio, che invece non compie alcuna azione, ma è nella terra, morto; anche qui è presente un albero (“la mia pianta”) che però è l’autore, e il suo frutto è appunto il figlio.
In questa seconda parte è presente il nero, e sensazioni di freddo e buio. Tuttavia, rileggendo, con attenzione, si scopre che gli elementi negativi sono presenti sin dall’inizio: l’orto è infatti “muto” e “solingo”, di per sé aggettivi non necessariamente negativi, ma che preannunciano quanto verrà dopo; il giardino è infatti in quella condizione perché nessuno ci gioca più. Così pure, la presenza del “tu” c’è sin dal primo verso, ma il verbo corrispondente è all’imperfetto, segno di un’azione che non sta più avvenendo.
Infine, l’allusione più difficile: il melograno, che nella tradizione era caro a Persefone, dea degli inferi. Non può di certo essere un caso, visto anche che tutto il testo è percorso da profonde reminescenze letterarie da Dante, Petrarca, Tasso, Monti, Leopardi (per citare la più evidente: “la pargoletta man secura stendi”, Tasso, Lib., XII, 31, 2). Tragico il finale: mentre il sole è in grado di far rifiorire la pianta di Persefone e far tornare quindi la primavera, l’amore paterno non è sufficiente a risvegliare il figlio, come pure nulla può la natura (il sole).
La critica riconosce il magistero artistico del testo e la sua perfetta architettura formale, così composta e studiata; ma, secondo una visione più novecentesca, trova molto pacato e poco vissuto il dolore espresso da Carducci.