Percorso didattico sul pessimismo storico e cosmico di Giacomo Leopardi: la visione della Natura del poeta e l'inganno delle classificazioni
Il pensiero di Giacomo Leopardi viene associato al pessimismo, e si tratta di un’affermazione corretta, se presa in senso generico; questo riassunto, però, deve partire da una considerazione basilare: sbagliata è la comune differenziazione, rintracciabile in molti libri di testo, tra “pessimismo storico” e “pessimismo cosmico” (si legge anche "psicologico" in alcuni casi), quasi che Leopardi si fosse svegliato un mattino e avesse deciso di cambiare i termini del suo pensiero. Seguiamo con più attenzione i termini della questione e in iniziamo a parlare, semplicemente, di pessimismo leopardiano.
Leopardi fu un genio precocissimo, profondo conoscitore delle lingue antiche (latino, greco, ebraico) e moderne. Le capacità intellettuali vennero supportate da quelli che poi lui chiamò i “sette anni di studio matto e disperatissimo”; il periodo di studio però ebbe delle conseguenze sulle condizioni di salute del giovane studioso, che vide aggravarsi alcune patologie pregresse, come le difficoltà alla vista (la malattia si andò aggravando a partire dal 1819) o alcune deformazioni scheletriche. Nella vulgata scolastica, tra studenti, sono in uso formule come “Leopardi era triste perché era brutto”, “era pessimista perché era gobbo”: c’è del vero? Risponde in modo meraviglioso Sebastiano Timpanaro, uno dei più sensibili lettori del poeta:
"La malattia dette a Leopardi una coscienza particolarmente precoce e acuta del pesante condizionamento che la natura esercita sull’uomo come essere fisico".
Gli studi giovanili e l'opposizione antico/moderno
Lungo i primi studi giovanili, Leopardi arrivò ben presto a maturare una visione cupa e negativa (pessimistica, appunto) della condizione di vita dell’uomo moderno, visto in opposizione all’uomo antico. Caratteristica dell’età antica, infatti, erano le illusioni, come spiega nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815). Intorno al 1819 concepisce le Operette Morali e viene a definirsi la teoria del piacere: dentro l’uomo è insito il desiderio di piacere, che si materializza in alcuni piaceri particolari. Ad esempio, io potrei desiderare un cavallo, e tale desiderio sarebbe “astratto e illimitato”; ma nel momento in cui si ottiene l’oggetto, ci si rende conto che esso è limitato e che il mio piacere non è stato appagato.
Questo perché il nostro desiderio di piacere è infinito e non può essere soddisfatto: ecco perché “potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre”. L’uomo, così, si illude, poiché tramite il pensiero può invece immaginare un piacere che sia effettivamente infinito: quando però riscontra che tale pensiero non è reale, si scontra con la disillusione. Per questo gli antichi erano in una condizione migliore, poiché si illudevano, e così pure i fanciulli. Ecco allora spiegato l’invito del Sabato del villaggio (vv. 48-51):
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
La Natura come madre matrigna
Successivamente Leopardi arriva a modificare la sua visione della Natura, che da madre benigna, che consente all’uomo di illudersi per il suo bene, diventa una matrigna, indifferente all’uomo. Tale passaggio è in particolare segnalato da una delle Operette morali, il Dialogo della Natura e di un Islandese, in cui la Natura spiega appunto all’Islandese, che si sente da lei perseguitato, che di lui non gli importa assolutamente nulla, perché non si cura degli esseri umani, tanto che alla fine l’Islandese viene sepolto da un turbine di sabbia ed esposto secoli dopo in un museo, oppure viene sbranato da un leone leoni, che così sopravvivono un ulteriore giorno, rendendo per altro totalmente inutile la sua morte. Segno concreto di questa realizzazione del pessimismo è la chiusa del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:
O forse erra dal vero,
mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
La speranza nella Ginestra
Forse, nell’ultima parte della sua vita, Leopardi stava ipotizzando una sorta di via di uscita da tale pessimismo, come si scorge nella Ginestra. Il fiore soccomberà senza ombra di dubbio alla lenta discesa della lava vulcanica, che la travolgerà ma, non di meno, non rinuncia a spargere il suo profumo. Così pure l’uomo si può unire in una “social catena”; sembra che Leopardi stesse qui teorizzando una timida forma di neoumanesimo, ma non possiamo sapere se e come il suo pensiero si sarebbe ulteriormente evoluto.