Guida alla traduzione dell'Iliade da parte di Vincenzo Monti, con riferimento ai momenti e ai temi principali dell'operazione linguistico-letteraria
Può forse sembrare strano che la traduzione dell'Iliade da parte di Vincenzo Monti entri in un percorso letterario, anche se in realtà ciò avviene con altri autori e letterature, per esempio con la civiltà latina. La traduzione dell’Iliade, però, costituisce un’eccezione illustre, perché si tratta dell’opera più importante non solo dell’autore in esame, ma anche del periodo neoclassico italiano.
Innanzitutto, bisogna comprendere cosa l’autore intenda per traduzione, perché si tratta senza ombra di dubbio di qualcosa di molto distante dalle nostre idee; anzi, si potrebbe dire con una certa tranquillità che quella di Monti non è una traduzione, ma un’opera a sé. Il fatto che desta più interesse, di solito, è il fatto che l’autore non conoscesse benissimo il greco, ovvero ne avesse una conoscenza scolastica, ma che non poteva di certo essere sufficiente per comprendere il greco omerico, molto più complesso di quello classico.
Monti si aiutò quindi con le traduzioni latine dell’opera, lavorando quindi su una sorta di traduzione della traduzione. Ugo Foscolo, spregiativamente, lo definì il “gran traduttor dei traduttor d’Omero”; anche lui infatti si era accinto a una traduzione dell’opera, che si arrestò ai primi canti per l’impossibilità di rendere lo spirito greco che lui conosceva profondamente. Tra i due, oltretutto, non correva buon sangue; dopo la giovanile amicizia, Foscolo non si era comportato bene nei confronti del maestro, e la traduzione dell’Iliade divenne tra i due anche una sorta di sfida. L’operazione ebbe un successo straordinario, e Monti la ripropose anche con altre opere, arrivando a tradurre testi dal russo sempre con lo stesso metodo. Ciò testimonia la straordinaria versatilità mentale dell’autore, che comprese la necessità dell’apertura alla cultura europea da parte dell’Italia senza dimenticare però le specifiche esigenze culturali che il nostro paese continuava a manifestare.
Monti si aiutò quindi con le traduzioni latine dell’opera, lavorando quindi su una sorta di traduzione della traduzione. Ugo Foscolo, spregiativamente, lo definì il “gran traduttor dei traduttor d’Omero”; anche lui infatti si era accinto a una traduzione dell’opera, che si arrestò ai primi canti per l’impossibilità di rendere lo spirito greco che lui conosceva profondamente. Tra i due, oltretutto, non correva buon sangue; dopo la giovanile amicizia, Foscolo non si era comportato bene nei confronti del maestro, e la traduzione dell’Iliade divenne tra i due anche una sorta di sfida. L’operazione ebbe un successo straordinario, e Monti la ripropose anche con altre opere, arrivando a tradurre testi dal russo sempre con lo stesso metodo. Ciò testimonia la straordinaria versatilità mentale dell’autore, che comprese la necessità dell’apertura alla cultura europea da parte dell’Italia senza dimenticare però le specifiche esigenze culturali che il nostro paese continuava a manifestare.
Tuttavia i contemporanei apprezzarono largamente l’opera, tanto che Giacomo Leopardi, che nella prima fase della sua scrittura ammirava in modo smisurato Monti, tanto da definirlo il “principe” delle lettere italiane e da dedicargli i primi due dei Canti, venne a dire che chi leggeva l’Iliade di Monti non aveva necessità di leggere anche l’originale, tanto essa era perfetta. In effetti proprio dalla traduzione dell’Iliade Leopardi trarrà molti spunti per la riproposizione dell’antico all’interno dei Canti.
La traduzione dell'Iliade, quale metodo?
L’autore, nel tradurre l’opera, non si preoccupa di restituirla in un senso filologico, ma la riveste, per così dire, di una patina neoclassica, proponendola così nella versione di classicità che si immaginava all’epoca. Le parti più noiose, come il catalogo delle navi, vengono tagliate senza remore, per lasciare il posto all’espressione del sentimento dei personaggi e alla creazione di un’immagine che potremmo definire stereotipata della Grecia. Così pure, gli epiteti e la dizione formulare, che sono costitutivi dell’opera omerica, non sono riproposti, oppure vengono rimaneggiate per rispondere al gusto della sua sensibilità . Per comprendere il modo in cui Monti traduce, è sufficiente rileggere il famoso incipit:
"Cantami, o Diva, del Pelide Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l'alto consiglio s'adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atride e il divo Achille".
Anche conoscendo in modo approssimativo il testo omerico, è evidente che gli endecasillabi sciolti di Monti non traducono tutto il testo originario, in cui per altro non poteva comparire Giove, attributo latino di Zeus. Così pure il pronome “mi” non è presente nella versione omerica, più impersonale da questo punto di vista, dato che non esiste ancora il senso di un soggetto che “canta”, ma piuttosto che ripropone il canto della Musa. Rimangono alcuni epiteti, spesso reinterpretati, come nel caso del “re de’ prodi”.